Questo è il testo della relazione che verrà letta il giorno 29 gennaio al convegno Musica, danza e psicopatologia: nuovi scenari oltre de Martino che si terrà a San Vito dei Normanni (Br):
Tarantismo e ‘Neotarantismo’, ieri e oggi
di Giovanni Vacca
Il 29 giugno dell’anno 2000 ero, insieme ad altri, nella piccola cappella di Galatina alle prime ore del mattino del 29 giugno. Lì, una volta chiusesi le porte della chiesetta, assistetti allibito all’apparizione fulminea di una selva di telecamere, macchine fotografiche e registratori adoperati senza molta discrezione da un nutrito drappello di persone che cercavano di rubare qualche istante all’unica tarantata venuta a ringraziare San Paolo. Quell’istantanea, che porto scolpita nella memoria, rappresenta per me un evento di profonda portata simbolica, e cioè l’ormai compiuta migrazione di un rito della cultura contadina meridionale dal suo circoscritto ambiente di provenienza all’“eterno ritorno dell’eguale”, incarnato dalla riproduzione e dalla circolazione infinita e globale di immagini e suoni in cui tutti siamo ormai immersi.
Mentre negli anni ’90 in tanti ripercorrevamo le orme di Ernesto de Martino, ancora affascinati dalle ultime propaggini di culture antiche sedimentatesi nella visione del mondo dei ceti popolari del meridione italiano, il territorio si trasformava velocemente e inesorabilmente: gli anni ’90 segnavano infatti la definitiva mutazione di vaste aree del Mezzogiorno in zone a economia post-fordista e a forte espansione turistica, causando la sparizione di molte antiche tradizioni o la loro rifunzionalizzazione. Il tarantismo fu una di queste ed una delle più significative: presente da secoli come dispositivo terapeutico, ancora vivo e operante negli anni ’60 e ’70 (sebbene in forma disgregata come ben sappiamo), esso fu, in quel periodo, al centro di una forte ripresa di interesse.
Il motivo per il quale il tarantismo suscitò un nuovo interesse, e lo suscita ancora evidentemente, risiede i gran parte, indubbiamente, nel suo carattere spettacolare. Esiste, però, anche un altro richiamo e cioè quello terapeutico: il tarantismo era un rito capace di ri-sincronizzare un soggetto sofferente con il mondo e questo aspetto non poteva non incuriosire nuove generazioni di giovani alla ricerca di orientamenti certi nel confuso mondo venuto fuori dagli epocali eventi storici avvenuti tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. Per quelle generazioni, dunque, il tarantismo incarnava a tutto tondo una possibilità: la prospettiva che un rito appartenente alla comunità contadina potesse essere svuotato del suo significato originario e reso disponibile ad accogliere nuovi contenuti. Tale ‘mito’ entrò nella cultura giovanile alternativa, in gran parte ruotante, in quel momento, intorno ai centri sociali occupati e autogestiti.
Il ‘neotarantismo’, come venne definito questo fenomeno di riappropriazione, voleva essere deliberatamente una cosa nuova che nasceva sulle ceneri di una cosa morta o almeno moribonda: la ripresa di una forma coreutica e musicale riadattata all’espressione di nuovi bisogni e di nuove esigenze. Poteva funzionare? E se ha funzionato, che ne è dopo tanti anni? Dipende da che cosa ci si aspettava allora e da cosa ci si aspetta oggi da questa esperienza: se ci si aspettava di trovarvi le stesse capacità di coesione culturale e di stabilizzazione comunitaria che l’istituto del tarantismo poteva garantire nel mondo contadino in risposta a un certo tipo di malesseri, ovviamente la risposta non poteva e non può che essere negativa, perché ciò poteva avvenire solo in quel tipo di società, che non esiste più da molto tempo. Se ci si aspettava una riscoperta critica e problematica delle tradizioni popolari, questo è avvenuto solo in parte, essendo già stato l’obiettivo dei precedenti folk revival e cioè qualcosa che apparteneva al clima politico degli anni ’60 e ’70.
Quello che è avvenuto, invece, più semplicemente, è stata l’assunzione, mediata da un nuovo contesto sociale e culturale, di alcune danze della tradizione popolare italiana sul corpo vivo delle comunità giovanili dell’epoca. Un’assunzione che è arrivata fino ad oggi ma che è cominciata, non a caso, a partire dalla nascita della cosiddetta ‘globalizzazione’ e cioè quando, negli stessi ambienti, si riscoprivano i dialetti italiani e li si innestava sul rap afroamericano con analoghe modalità di trasmigrazione e con analoghi risultati transculturali. Il contesto era quello in cui già cominciava ad essere forte la presenza dell’immigrazione e diffusa la tecnologia informatica e quindi, fatalmente, tutte queste nuove realtà finirono per intrecciarsi e annodarsi tutte assieme. Ed è qui che si può riconoscere la funzione di mediazione culturale e di agente di socializzazione del neotarantismo, laddove il momento cruciale della danza poteva e può assumere questo tipo di funzioni nella direzione della comunicazione, del recupero del movimento, della gestualità, della tattilità.
Non so se la cosa, tra mille errori e ingenuità, tra entusiasmi effimeri e derive commerciali, abbia funzionato o possa ancora funzionare, oggi, in una situazione ulteriormente mutata: me lo auguro. Ma sono sicuro che non poteva non avvenire, così come accade che una fabbrica dismessa, in questo caso una fabbrica di energia psichica, venga riconvertita in qualcosa che può e deve servire ad altro: che poi se ne faccia o meno buon uso, questo dipende da noi.